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Con rumore segreto
di Michele Loffredo
“A’ bruit secret. E’ il titolo di questo readymade aiutato: un gomitolo di spago tra due piastre di rame fissate da quattro lunghi bulloni. Dentro il gomitolo di spago Walter Aresberg aggiunse di nascosto un piccolo oggetto che fa rumore quando lo si agita.
E ancora oggi nessuno sa, neppure io, di che si tratti ( …)”
(M. Duchamp in “Scritti” a cura di M. Sanouillet, Carte d’Artisti 69, Abscondita, Milano, 2005)
Da almeno un secolo sembra che ogni nuova opera d’arte venga concepita per dare risposta, in modo più o meno sottinteso, alla domanda che cosa sia davvero Arte, ponendosi come soluzione ontologica all’enigma ed, inoltre, legittimando così la propria venuta al mondo.
E’ un marchio che ogni nuova opera porta inscritta nel proprio DNA e si presenta con il segno distintivo del peccato originale, da quando l’opera d’arte è stata cacciata fuori dall’Eden della Grande Arte. Non così invece avveniva per l’arte antica e per quella classica (per i Greci, ad esempio, era soprattutto teknè), non ci si chiedeva se era arte o meno, piuttosto se era ben fatta o meno, se bella o brutta.
Afferma Yves Michaud nel suo stimolante “L’arte allo stato gassoso” che, in un mondo dove viene celebrato dovunque il trionfo dell’estetica ed il culto della bellezza, si assiste paradossalmente alla scomparsa dell’opera d’arte come fonte di esperienza unica e di ordine superiore: “Quando la bellezza è onnipresente diminuiscono le opere d’arte e quando viene meno l’arte nel senso tradizionale, si diffonde ovunque un senso artistico che colora tutto, un’arte allo stato gassoso che investe il mondo come una nuvola di vapore. L’arte si è volatilizzata in etere estetico”.
Alla base di questo processo, come sappiamo, si vi è la progressiva negazione dell’opera come oggetto, sostituita da processi e dispositivi produttori di esperienza. Un processo di de-estetizzazione e s-definizione dell’arte iniziato a partire proprio da Duchamp, a cui si aggiunge l’inflazione delle opere, il loro moltiplicarsi e il diventare accessibili al consumo massmediale, ma così “le opere hanno perso intensità: (sono) una rarità che si offre in grandi quantità.”
Questo sviluppo, che rispecchia la complessità delle rapide trasformazioni tecnologiche, attraverso la socializzazione dell’arte conduce anche lo spettatore a partecipare direttamente alla definizione della stessa.
In una tavola rotonda dell’American Federation of Arts tenutasi a Houston nell’aprile del 1957, tra cui erano presenti anche Rudolph Arnehim e Gregory Bateson, Marcel Duchamp parlando del processo creativo dichiara: “In definitiva, l’artista non è il solo a compiere l’atto della creazione, perché lo spettatore stabilisce il contatto dell’opera con il mondo esterno decifrando e interpretando le sue profonde qualificazioni e così aggiunge il proprio contributo al processo creativo. Questo contributo è ancora più evidente quando la posterità pronuncia il suo verdetto definitivo e in alcuni casi riabilita artisti dimenticati”.
A tutto ciò soggiace, inoltre, l’antico quesito se l’arte debba considerarsi in quanto valore assoluto (trascendenza) o in quanto solo connessa ad un sistema di riferimento (immanenza), che trova risposte diverse a seconda dell’evoluzione delle opposte scuole di pensiero.
L’attività pensante, per meglio dire, la filosofia dell’arte, si accampa quindi in modo preminente, da non pochi decenni, nello statuto del riconoscimento di cosa sia Arte e, soprattutto, quale funzione reale e non surrogata può ancora sostenere ed, in definitiva, quale valore assuma per l’uomo stesso.
Queste iniziali considerazioni, qui stringatamente tracciate da poter apparire semplicistiche, vogliono invece condurre all’articolato territorio operativo di Fabrizio Ruggiero. Infatti è muovendo proprio da alcune di queste osservazioni che, negli anni, egli dispone la sua ricerca che mi piace sintetizzare nella sua dichiarazione: “Alla base di tutta l'arte, degna di questo nome, vi è sempre una trasformazione dell'uomo”. Affermazione che chiarisce in modo palese, all’interno di questo discorso, il suo orientamento e che questo ultimo ciclo di lavori presenta quale compendio delle tappe artistiche, strutturandosi con più livelli di lettura e di complessità.
L’impianto generale, infatti, si avvale della potenzialità non solo spaziale ma anche simbolica della piccola chiesa sconsacrata di San Lorenzo, annessa all’omonimo albergo.
A pianta rettangolare, conserva ancora l’altare centrale ma epurata da segni che la caratterizzino in senso liturgico, spazio espositivo che ha ospitato negli anni una selettiva programmazione di artisti contemporanei, viene qui utilizzata non solo come white box, contenitore-galleria d’arte, ma è ricondotta alla sua funzione originaria. Reinvestita della messa in scena “sacra”, pur nell’ambigua dimensione laica, presenta alle pareti dieci ritratti di artisti contemporanei, come altrettanti icone capitali dell’arte, per convergere al centro nel dipinto A’ bruit secret/Vaso di Pandora, collocato nella grande nicchia della pala d’altare.
A questo livello si evidenzia la ricostruzione/riproposizione, essenzialmente minimalista, di un tempio dedicato all’arte attraverso un allestimento concepito come installazione totalizzante, in cui ogni singolo lavoro è articolato e ordinato tale da restituire un’opera unica.
L’asse intorno al quale tutto si muove è appunto il dipinto A’ bruit secret/Vaso di Pandora che si pone come metafora dell’arte, della sua presenza/assenza (ovvero presenza in quanto assenza), del suo nascondersi/apparire, della possibilità della percezione di “qualcosa” ma non della sua definizione.
A questo proposito sarà utile qui richiamare l’arte concettuale, che ha portato gli atti di Duchamp a paradossali quanto sopraffini esiti, in particolare la smaterializzazione dell’oggetto operata da Joseph Kosuth e soprattutto Robert Barry, per la sottrazione psicologica del concetto di arte, affermata nell’incapacità di conoscerla e di esserne consapevole: “Qualcosa che non conosco ma che agisce su di me” oppure “Qualcosa che sta prendendo forma nella mia mente e giungerà alla coscienza”, il cui oggetto è inconoscibile.
Nel dipinto A’ bruit secret/Vaso di Pandora, in cui la raffigurazione del ready-made di Duchamp è inserita in una traccia circolare a rappresentare un vaso, il vaso di Pandora il cui mito è ben noto, non si può far a meno di sottolineare il contrasto fra la tridimensionalità di A’ bruit secret e la costruzione bidimensionale del vaso, su un fondo rosso, che richiama la semplicità delle antiche pitture, soprattutto il rosso-ocra e nero di tante sacre raffigurazioni, da quelle rupestri e primitive alla pittura parietale e non solo orientale.
Non sfugge che qui il segno è soprattutto simbolo e si possono ricavare facilmente le analogie attinenti al vaso, all’alveo “nascosto” e quindi, per definizione, misterioso, agli ipogei sotterranei che rimandano alla terra (a Gea, Grande Madre) e all’utero all’interno del quale si forma segretamente la vita.
L’opera corona tutto l’allestimento, contornata dalle effigi degli artisti tra i più significativi del contemporaneo, che hanno attinenza con la storia personale e le riflessioni dell’artista ma anche attraverso i quali è transitata la storia dell’arte, taumaturghi che con il loro “tocco” miracoloso hanno trasformato l’arte.
La tematica del ritratto, qui efficacemente espressa e il cui spessore semantico non ha bisogno di nuove parole, non è strumentale all’esposizione in corso, ma origina piuttosto dalla convergenza e dallo sviluppo di una ricerca che Ruggiero ha intrapreso negli ultimi anni.
Infatti la dimensione celebrativa del ritratto qui si avvale e si compiace della tecnica dell’affresco che l’artista utilizza come tratto distintivo fin dagli albori della sua attività professionale.
I grandi pannelli, a secondo della distanza di lettura, rimandano una percezione quasi antitetica, infatti nel dettaglio si rinvene la forza basica del linguaggio informale/astrattista espresso con colore vivo e densamente materico, mentre la visione generale restituisce il collage del volto, sottilmente “interpretato” nello stile dell’artista riprodotto, e, talvolta, arricchito di minuscoli oggetti che si vanno a collocare in posizioni strategiche sulla superficie corrugata, con significati discretamente stranianti.
I ritratti degli artisti sono ricavati da foto per lo più conosciute e, quindi, caricate di quel valore “ieratico” che hanno acquistato nel circuito massmediale, pervengono poi alla redazione definitiva dopo essere state sottoposte ad un processo di riduzione formale, elaborate attraverso distinti procedimenti tecnici, per l’acquisizione, il trattamento digitale, il riporto, il ritaglio, la stesura degli strati di intonaco e così via.
Elemento caratterizzante, come accennato, è l’interesse e l’applicazione dell’artista alla pittura a fresco che nasce dallo sviluppo delle sue prime ricerche per indagare strutture ritmiche e patterns geometrici, proseguendo nella progettazione e costruzione di spazi simbolici come supporto per la contemplazione.
Con la realizzazione di Architectura picta, marchio di questo cammino, combina la qualità e la nobiltà dell’affresco ai soggetti che spaziano tra sacre raffigurazioni orientali, indagini ottico percettive e l’icona-ritratto.
Riappropriandosi delle funzioni esercitate nel passato ed in ambito religioso, come il supporto alla meditazione, l’arte viene intesa come indagine umana per l’avvicinamento al sacro e la pittura, in quanto fissazione e concretizzata della memoria, come trasmissione di energia, se non addirittura una finestra dove si rende corporeo il divino, come suggerisce Pavel Florenskij nel celebre saggio “Le porte regali”.
Sulla scorta del cosiddetto "pensiero tradizionale", tra i cui esponenti vale citare Ananda Kentish Coomaraswamy ed Elémire Zolla, Ruggiero costruisce un percorso di affermazione di come si possa operare nel contemporaneo per diffondere un’alternativa culturale contrapposta ai valori mondani della Modernità senza impoverirla delle sue valenze artistiche e cognitive.
Vedere il suono dell’arte sottolinea che il passaggio da una percezione visiva ad una uditiva, si avvale del paradosso dei koan zen: Che l’arte, quindi, non nutra il serrato dialogo interiore, che possa far tacere la prigione della mente ed, interrompendo il flusso dei pensieri, possa aprirci la soglia di una ulteriore consapevolezza.
Come per la mitica scelta di Ercole al bivio, sviluppando il discorso tra profano e sacro, sembrano aprirsi due strade: La riflessione diviene provocatoria del sistema dell’arte, narcisista ed autoreferenziale, che ha il sapore del più grande complotto mai realizzato, costruito sul niente, una bolla vuota tenuta in piedi dalla convenienza e dall’ignoranza, come per la favola I vestiti nuovi dell’imperatore.
Dall’altro, invece, la posta diventa più alta: dall’acuta metafora esistenziale della condizione umana si offre una strada di liberazione.
L’arte diviene ascensione all’inaccessibile, l’opera diventa cammino iniziatico, viaggio di conoscenza che induce a proiettarci oltre il linguaggio umano, riconoscene il ruolo di mediatrice e di ianua coeli.
Così trasfigurata, allora ogni dubbio profano svanisce, nel ruolo di iniziati non sembrerà strano riconoscere nella chiesa di S. Lorenzo i ritratti degli Apostoli del Logos, del Verbo che sostiene l’universo con la perenne vibrazione primordiale, radiazione fossile della singolarità iniziale e per questo al di là del concepibile.
Essi circondano il Vaso/Utero, l’uovo cosmico che genera i mondi, accolto nel seno nella Grande Madre, la Sophia dell’Arte, Vergine perché sempre inviolata, in cui è incarnato il Mistero che può essere abbracciato solo con mistico atto di fede e, forse, giungere all’esperienza inconcepibile dell’illuminazione.
Michele Loffredo
(giugno 2010)
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